Il gesto di solidarietà simbolico di Israeliani ebrei e arabi mostra che la guerra non ha sconfitto il desiderio di pace. I contrari al conflitto sono i due terzi
«Non siamo impotenti. Di fronte alla tragedia di questa guerra, alziamo insieme la voce, per dire basta». Così dicono a Lucia Capuzzi. Cappellino per difendersi dal sole, t-shirt e pantaloni, qualche migliaio di cittadini israeliani, ebrei e arabi – almeno duemila per le forze di sicurezza, ben di più a giudicare dalle immagini – ha marciato da Tel Aviv fino al confine della Striscia, un’ottantina di chilometri a sud portando sulle spalle sacchi di generi alimentari. Una dimostrazione simbolica: sapevano che le autorità israeliane non avrebbero consentito agli aiuti di oltrepassare il valico di accesso. Eppure questo non ha impedito a Standing together e a una miriade di altri gruppi di mettersi in cammino. Non tanto per raggiungere una meta, bensì per mostrare con il proprio corpo il movimento in atto da tempo nella società israeliana, molto più plurale e complessa di come spesso viene rappresentata. La guerra, drammaticamente, ne ha acuito le tensioni ma ha anche mostrato un fermento in apparenza sopito. L’opposto della narrativa promossa dal governo di Benjamin Netanyahu che ha cercato e cerca di paralizzare il Paese nello choc del 7 ottobre. Il sostegno al conflitto, sull’onda del massacro di Hamas, da tempo ha smesso di essere maggioritario. Fin dal principio, in realtà, a ben osservare, la presunta unanimità appariva più una reazione di pancia che una scelta di campo. I gruppi e i movimenti impegnati per la pace, nonostante il duro colpo, sono stati capaci di resistere. E di reinventarsi grazie anche all’inclusione di nuove leve.
Se i familiari degli ostaggi sono stati i primi a manifestare in difesa dei propri cari, questi ultimi hanno cominciato ad affiancarli già dalla fine del 2023. Il punto di svolta è stata l’invasione di Rafah della primavera successiva che ha mostrato al pubblico l’assenza di un orizzonte politico da parte del premier al di là della retorica della «vittoria totale». In centomila sono rimasti accampati una settimana davanti alla Knesset di Gerusalemme per protestare contro il governo. In prima linea, certo, c’erano i familiari dei rapiti. Ma accanto, su Kaplan street, c’erano formazioni di diverso orientamento, dai progressisti ai conservatori, veterani delle dimostrazioni contro la riforma giudiziaria, ex militari e formazioni pacifiste. A questo periodo risale anche la prima presa di posizione pubblica di un gruppo di riservisti. Da allora è stato un crescendo, come confermato dai due eventi di It’s time – a luglio 2024 e lo scorso mese – che hanno riunito decine di organizzazioni e di migliaia di persone determinate a immaginare alternative al muro contro muro. La marcia verso il confine affonda le radici in questo processo. E, al contempo, gli dà ulteriore slancio. Perché dimostra la capacità di collaborazione stabile fra i differenti raggruppamenti e settori. E che la guerra, l’orrore, la violenza non hanno sconfitto il desiderio di incontro fra questi due popoli: i nostri lettori, a giudicare dai commenti su Facebook, lo hanno compreso.
Si insiste, a volte, sul fatto che, comunque, rappresentano una minoranza. In realtà, le recenti rilevazioni rivelano che ad essere minoranza – un terzo della popolazione – sono i sostenitori del conflitto. I due terzi chiedono un accordo. Non tutti per le stesse ragioni, è ovvio: per molti la priorità è salvare gli ostaggi, per altri mettere fine alla carneficina, di civili ma anche di soldati, nella Striscia, per altri ancora uscire dalla crisi economica e politica causata dalla temperie bellica. Il punto è semmai tradurre questa consapevolezza in civile in un’alternativa politica concreta. In questo, Israele è lo specchio rovesciato della Palestina. Anche in Cisgiordania e a Gaza – nella prima lo certificano i sondaggi, nella seconda lo confermano le manifestazioni anti-Hamas sotto i bombardamenti –, l’appoggio agli estremisti non supera il 30 per cento dei cittadini. Il resto, però, non è ancora riuscito a tradurre il sentire in un programma di rinnovamento della leadership. Israeliani e palestinesi, però rifiutano di attendere inerti tale maturazione. Il popolo della pace, pur tra mille ostacoli, continua a camminare.